Un pensiero su “Bensinistri Inattesi” di Irene Pinardi
Accade spesso in questi giorni 3.0 che, spinti dall’immediatezza della comunicazione e dalla facilità di accesso ai dibattiti, grandi o piccoli che siano, si tenda a vedere o BIANCO o NERO. O TUTTO o NULLA. Fateci caso, quando siamo online fatichiamo a vedere le mezze misure e, ultimamente, online passiamo davvero tanto tempo. È facile che in questo rincorrersi di ‘sì’ e ‘no’ diventi sempre più complesso vedere un gradiente modulare, vedere il buono e il giusto anche nella parzialità.
Mi piace pensare che tra i compiti di un artista che si confronta con la contemporaneità, ci debba essere quello di porsi sempre più come mediatore. Mediatore tra i mezzi, tra le voci, tra le sfumature. Un mediatore che ci ricordi con la sua opera che si può guardare oltre. Dietro. Davanti. Dentro.
Da qui vorrei iniziare un pensiero sulla sperimentazione dell’artista Irene Pinardi, 28 anni, di Pieve di Cento, che con la pittura, la fotografia e la video-installazione, porta lo spettatore a esperire un punto di vista che raramente è deciso o imposto. Tutt’altro.
Pinardi racconta storie sulla memoria (non è forse questo una delle grandi ‘mediazioni’ che facciamo ogni giorno con il tempo che scorre?) e ci porta in una dimensione tanto onirica quanto concreta. Tangibile e intellegibile.
Nel progetto fotografico “Bensinistri Inattesi” invece, a equilibrare forma e sostanza è l’errore fotografico. L’errore per queste tracce in movimento è ‘un mezzo per sperimentarsi e oltrepassarsi’ per cercare in sé e nell’altro un’identità, mutevole, nel momento stesso in cui diviene.
L’errore è quel disequilibrio che l’artista porta in ognuno di noi, per stimolarci una nuova visione, di bellezza, di senso. E quindi, di equilibrio. Perché quando abbiamo compreso, che il tutto non è che l’insieme di tante parzialità, possiamo riavvicinarci gli uni agli altri, con pensieri neri, bianchi e di diversi pixel di grigio.
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